Segnalazione: Fiele d'Ottobre di Varla del Rio

Titolo: FIELE D'OTTOBRE
Autore: VARLA DEL RIO
Editore o se Self scrivi la piattaforma (Amazon, Lulu ecc.): EVE EDIZIONI
Genere: NARRATIVA
Prezzo ebook: 2,49
Prezzo cartaceo: 13,90
Disponibile su:
Amazon, BookRepublic, Mondadori Store, Hoepli

Sinossi:
Contatti autore:

www.varladelrio.it


Copertina del libro: “Giulia” di Claudia Ducalia


SINOSSI  

Umberto, un quarantenne frustrato con molte ossessioni, è convinto che la sua vita stia per cambiare in meglio con l'arrivo di una promozione. Ma la mattina in cui si reca al lavoro per ricevere l'agognato riconoscimento è costretto a incassare una cocente delusione. Da quel momento in poi il veleno covato per tanto tempo entrerà in circolo, fagocitando tutte le persone che orbitano intorno alla sua esistenza. Giulia è una dodicenne ricca di fantasia e con una grande passione per il nuoto. La sua sensibilità la porta a vedere oltre la realtà di tutti i giorni e a oltrepassare quella sottile linea di demarcazione che separa il mondo razionale dalla dimensione onirica. A mettere Giulia in contatto con tale universo è la costante presenza di gatti, unici esseri capaci di sondare la profondità dell’inconscio.


Lasciamo la parola all'autrice – Perché una lettrice dovrebbe leggere il tuo libro?

Fiele d'ottobre è un romanzo “corale” : vale sempre la pena ascoltare quello che i personaggi di un libro hanno da dire; spero che l'intreccio possa incuriosire i lettori spingendoli a seguire tutte le voci e a tirare il filo sottile che unisce ogni storia.


Che cosa c'è di innovativo e quali sono gli elementi di continuità con il genere o con la tradizione?

Fiele d'ottobre unisce la narrativa classica al genere horror. Il romanzo contiene molti elementi fantastici di cui mi sono servita per raccontare le parti più oscure delle vite dei personaggi. La dimensione onirica, quasi paranormale, si alterna a quella consueta, del quotidiano creando tensione e un pochino di smarrimento.


Che cosa ti ha spinto a scrivere?
La voglia di raccontare ovviamente e nel caso specifico di Fiele d'ottobre di cambiare forma all'idea originaria. Fiele nasce infatti come sceneggiatura, nel 2009. Col passare del tempo mi è venuta voglia di stravolgerne la struttura per dare respiro ai personaggi, ampliare i loro lati nascosti, rendere tutto un po' più sfaccettato... e complicato.


Da che cosa è nata la storia? Quali sono state le tue ispirazioni?

Quando ero bambina andavo spesso a trovare uno zio che abitava a Testaccio, quartiere di Roma che amo molto. Viveva da solo, era sordo, amava leggere. Passava la maggior parte del tempo seduto accanto alla finestra del soggiorno con un libro in mano. Accanto a lui, appollaiato sul davanzale, un micio tigrato. Non era suo, era un gatto di quartiere e ogni pomeriggio faceva sosta da lui. Questa amicizia mi faceva ridere e mi incuriosiva. Sembrava ci fosse un dialogo speciale tra loro. Quando mio zio morì, il gatto scomparve e nessuno del palazzo lo vide più. L'episodio mi rimase molto impresso e una volta cresciuta mi venne voglia di inserirlo in una storia.
Gli altri personaggi sono nati successivamente man mano che tessevo la trama.
Mi ispiro sempre alla letteratura gotica, almeno per descrivere le atmosfere più cupe. Fiele d'ottobre in fondo è anche una storia di fantasmi.

 Progetti per il futuro

Ho appena terminato di impaginare un racconto breve e sto lavorando a un romanzo dalle tinte horror. Sono progetti a cui sono molto legata, spero di terminarli al più presto.

Tre persone da ringraziare

Voglio ringraziare Mauro Beato e Francesca Costantino per i loro preziosissimi consigli, e Claudia Ducalia per aver realizzato un bellissimo ritratto di Giulia, la protagonista di Fiele, da mettere in copertina.


Estratti: 

Ogni giorno Umberto Vitale amava indossare una Schostal in tela batista ricamata a mano con il colletto piatto e inamidato. La sua collezione di camicie comprendeva venti modelli, una metà per la settimana lavorativa, l'altra per il tempo libero, il pranzo domenicale dai suoceri e le cene con gli amici del circolo sportivo. Le camicie erano divise nell'armadio in base a colori, fantasie e dimensioni dei polsini, ognuna con la sua gruccia personalizzata. La scelta della camicia era un rito mattutino scandito da ritmi e gesti calibrati che il passare degli anni aveva reso sempre più preciso e raffinato, al limite del maniacale. Già solo lo scorrere dell'anta nel controtelaio dell'armadio era sufficiente a fargli rizzare i peli del collo, quel semplice gesto che per la maggior parte dei comuni mortali rappresentava una forzatura quotidiana, un atto meccanico di routine e di adeguamento alle regole sociali, era per Umberto l'anticamera del piacere. L'intenso profumo di legno del guardaroba impregnava i tessuti di aroma di ciliegio. Umberto si riempiva le narici di quell'essenza al pari di un sommelier in procinto di assaggiare un bicchiere di Latours. La fase olfattiva era seguita da una rapida occhiata fuori dalla finestra per accertarsi delle condizioni meteorologiche e decretare il tono della giornata. Le tinte delicate richiamavano i raggi del sole, mentre i quadrati e le righe servivano a ravvivare le giornate uggiose. Dopo aver tolto la camicia dalla stampella, Umberto procedeva con la fase della vestizione inspirando a pieni polmoni l'essenza del ciliegio inamidato, sfiorando con feticismo le venature dei bottoni e le cuciture impalpabili della sua seconda pelle. Quella cerimonia “era un diritto inalienabile per un uomo che si guadagnava da vivere in maniera onesta e dignitosa”, come lui stesso non mancava mai di sottolineare componendo il nodo della cravatta davanti allo specchio. Era il momento in cui univa i puntini dei suoi pensieri, faceva il piano d'azione della giornata, raccogliendo le idee da condividere con i colleghi della concessionaria davanti alla macchinetta del caffè, e mettendo da parte quelle giuste, e soprattutto, non spartibili, che gli avrebbero permesso di distinguersi dalla mediocrità altrui. 

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 Rimabud scese dal letto e zompettò sul pavimento di linoleum verde con estrema ritrosia. Rasentava il muro a coda bassa. Di tanto in tanto si immobilizzava, annusava l’aria e ripartiva. Vincenzo era nei paraggi, non doveva fare altro che concentrarsi su quei pochi elementi topografici che aveva intuito dal balcone ed entrare nella camera giusta. Si fermò di fronte all’uscio socchiuso della stanza n.9 dove aveva percepito qualcosa di familiare. Appiattì il muso e lo introdusse nella fessura della porta come il periscopio di un sommergibile. Quando vide, entrando, quel corpo esile che si gonfiava e sgonfiava come un foglio di carta velina il cuore prese a galoppargli in petto. Con movenze impalpabili andò a depositarsi sul cuscino accanto al viso dell’uomo. Notò tutti quei dettagli che dall’albero non aveva potuto cogliere e che gli mostravano Vincenzo sotto una prospettiva diversa. La sua pelle trasudava sofferenza, le rughe erano più profonde, l’odore che emanava era un misto di quello abituale del talco e di quello ostile delle medicine. Prima che tornasse cosciente, doveva farsi strada nella sua memoria per recuperare le informazioni che gli servivano. I ricordi di Vincenzo si mescolavano spesso ai sogni e quando subentravano anche le fantasie scaturite dalle letture fatte era dif- ficile distinguere il momento in cui quei viaggi onirici prendevano il sopravvento sulla realtà. Ma l’abilità di un gatto funambolo risiede proprio nel saper attraversare in bilico il filo che separa la dimensione reale da quella, proteiforme, dell’immaginazione onirica. Grazie a questo dono, Rimbaud era in grado di entrare in contatto con la parte più profonda degli esseri umani, setacciare le emozioni e intercettare i segreti dell’inconscio. 
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Tutte le volte che tentava di ripercorrere gli eventi di quella giornata le immagini si sovrapponevano nebulose. Ricordava di aver calzato gli occhialini, di essersi allineata sul bordo vasca e di aver individuato la madre seduta sugli spalti in mezzo agli altri genitori in fibrillazione. Poi c’erano stati gli ultimi consigli da parte dell’allenatrice e il suono acuto del fischietto che aveva dato inizio alla gara. Finalmente si era tuffata decisa a toccare il bordo prima delle altre. A metà vasca, però era successo qualcosa. Una forma indefinibile, oscura, si era materializzata sotto di lei e le si era appiccicata addosso come una crosta di fumo liquido. Giulia, sopraffatta dal panico, aveva accelerato il ritmo delle bracciate con la speranza di liberarsene. Per qualche frazione di secondo aveva avuto l’impressione di esserci riuscita, ma quando aveva sollevato la testa per incamerare aria, l’ombra era riapparsa e l'aveva trascinata giù con sé, oltre il fondo della piscina. Giulia si era ritrovata così a fluttuare in una dimensione slegata da ogni forma di realtà tangibile. Aveva cercato di divincolarsi per risalire in superficie, ma una forza invisibile le aveva impedito ogni movimento, in una paralisi del corpo come del pensiero. «Forse sto morendo», aveva pensato tenendo gli occhi chiusi mentre scompariva nell’abisso. Quando li aveva riaperti, si era resa conto di non trovarsi più in acqua, ma all’interno di una buca distesa a pancia in su. Da quella posizione, aveva scorto uno spicchio di cielo violaceo e sentito l’odore della terra umida sulla pelle. Quei pochi elementi che la sua vista aveva colto non le avevano permesso di riconoscere in quel luogo alcunché di familiare o di già conosciuto. Aveva provato a muoversi, ma invano. Ricordava di essersi sentita come una di quelle bambole con le gambe, le braccia e il collo fissati alla confezione da fili di plastica. Mentre aveva cercato di cogliere qualche altro dettaglio utile per localizzare la sua prigione, la faccia di un uomo le si era parata davanti all’improvviso. Ci aveva messo un po’ a riconoscere chi fosse: il naso che colava, la bocca serrata, gli occhiali appannati erano dettagli che, invece di conferire un'identità al viso, lo avevano scomposto in tanti tasselli. Quando Giulia aveva finito di ricostruire un’immagine, si era trovata davanti una maschera. Anzi, un ghigno. Terribile e spaventoso. «Papà, sono io, fammi uscire di qui!» aveva gridato


 MUSICA1) Joy Division: Love will tears us apart 2) Muse: Madness 3) Anathema: A natural disaster





BIO

Varla Del Rio è uno pseudonimo. Sono nata a Roma alla fine degli anni Settanta. Nel 2002, dopo essermi laureata in Storia e critica del cinema ho cominciato a scrivere recensioni per riviste indipendenti e pile di sceneggiature. Alcune sono state realizzate, altre hanno ricevuto premi e menzioni, altre ancora sono state utilizzate per foderare i cassetti della scrivania. Lavoro attualmente come assistente al montaggio presso alcune società di postproduzione e come adattatrice. Le mie passioni sono da sempre i film horror e la letteratura gotica. Ho scritto sotto mentite spoglie racconti cupi per ragazzi malinconici.
Dal 2012 suono il basso nel gruppo doom Summer’s gone. Fiele d’ottobre è il mio primo romanzo.






-CuorediInchiostro







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